Caro Utente, ti scrivo?
Non molto tempo fa, ci siamo occupati dei principali trend del digital fundraising per il 2017. Oggi vogliamo tornare sull’argomento per aggiungere un altro tassello alla nostra riflessione, focalizzando l’attenzione su un altro elemento della comunicazione digital, forse il più importante, ossia chi riceverà il nostro messaggio.
Tralasciando tutte le distinzioni tra “target specifico di comunicazione” e “utente spettatore della stessa” (che meriterebbero un capitolo a parte), per questa nostra analisi considereremo gli utenti nell’accezione più generica di “persone che possono liberamente scegliere di leggerci, guardarci, ascoltarci o ignorarci”.
Chi sono dunque questi Utenti? Dati globali alla mano, possiamo dire che si tratta di persone non soltanto sempre più avvezze all’utilizzo di Internet (grazie a un accesso alla rete più diffuso – oltre metà della popolazione mondiale lo usa), ma anche sempre più tecnologiche e mobili (la maggior parte ne fruisce attraverso dispositivi precisi, smartphone primo fra tutti), manifestando inoltre un’inclinazione importante per l’utilizzo dei social network.
Questi dati mettono il mondo del non profit, interessato ovviamente ad ampliare al massimo il proprio spettro di visibilità, davanti ad alcuni quesiti: come possiamo costruire il nostro rapporto con “il popolo del web”? Quanto dobbiamo (o non dobbiamo) seguire le sue esigenze e le sue preferenze, quando parliamo di noi o quando lanciamo le nostre campagne?
E poi: considerata la quantità massiccia di messaggi cui gli utenti sono sottoposti durante la navigazione, ci basterà avere “delle belle storie da raccontare” per catalizzare il loro interesse verso di noi?
Senza avere la pretesa di poter raggiungere tutti, ma proprio tutti i 3 miliardi di internauti (anche se sarebbe un vero sogno!), per rispondere a queste domande dobbiamo sicuramente partire da una doppia analisi, sia interna che esterna. Infatti, così come la conoscenza del contesto può aiutarci a veicolare il giusto messaggio, anche una maggiore consapevolezza degli utenti e delle loro abitudini ci permetterà di definire le migliori strategie di coinvolgimento.
Ad esempio, come sostiene Mike Phillips, i nostri sostenitori (e gli eventuali futuri tali) sono utenti digitalizzati che usano il web, e soprattutto i social, come mezzi di auto-definizione. Questo significa che quello che gli utenti chiedono alle onp, ormai, è ben più che “fare un buon lavoro” (di comunicazione e non): è necessario infatti che le organizzazioni si trasformino una sorta di specchio che, da un lato, consenta all’utente di riconoscersi (in un sistema di valori, in un modus operandi, in un linguaggio…) e, dall’altro, diventi il mezzo privilegiato attraverso cui egli si presenta al mondo, raccontando agli altri ciò in cui crede e dimostrando di sostenerlo concretamente. Seguendo questa logica, potremo per esempio spiegarci come mai tante (ma proprio tante) persone si siano fatte un selfie senza trucco per comprovare il loro impegno nella lotta al tumore del seno o si siano rovesciate addosso un secchio d’acqua gelata per aiutare la ricerca contro la SLA, condividendo, in ambo i casi, una valanga di foto e video sui propri profili social.
Considerato dunque questo elemento di partenza, cosa potrebbe (o dovrebbe) fare una onp per andare incontro ai suoi utenti e coinvolgerli?
Anzitutto dovrebbe imparare a conoscerli, analizzandone tendenze e preferenze, e poi dovrebbe assecondarli. Detto in una frase: dovrebbe lasciarsi guidare da loro. Come ci dice Lisa Clevering, infatti, un’organizzazione che voglia davvero stimolare l’interesse del proprio pubblico online verso le sue attività (e le sue campagne), dovrebbe concentrarsi su tre comportamenti, diversi ma complementari tra loro: “quello che i propri sostenitori già fanno in digitale, quello che vorranno fare in futuro e quello che la onp vuole far fare loro”.
Non proprio un gioco da ragazzi, insomma. Soprattutto alla luce del fatto che, per incrociare questi tre dati e costruire strategie di comunicazione e fundraising digital adeguate tanto alle esigenze degli utenti quanto agli obiettivi dell’organizzazione, occorrerebbe prima di tutto conoscere e saper utilizzare gli strumenti digital.
Una frase scontata? Affatto.
Da una ricerca condotta da Skills Platform sul livello di competenza delle onp britanniche in tema di digital, emerge infatti che il 50% del non profit “made in UK” non include all’interno delle proprie attività di comunicazione e raccolta fondi delle vere e proprie strategie “digital oriented”, ideate e gestite dunque da esperti del settore e da personale adeguatamente formato. Il motivo? Da un lato (il 57% dei casi) le organizzazioni conoscono poco la materia (e dunque ne diffidano), dall’altro evidenziano una carenza di fondi da investire nella formazione dei propri dipendenti.
Tuttavia, e per fortuna, quasi tutti (7 onp su 10) riconoscono di dover necessariamente accrescere le proprie competenze in materia, proprio per evitare di perdere utenti e quindi fondi preziosi che finirebbero dritti dritti verso i concorrenti più “preparati”.
A fronte di una situazione così peculiare, in cui convivono allo stesso tempo paura della novità e consapevolezza della necessità di cambiamento, secondo Rebecca Curtis-Moss alle onp inglesi servirebbe soltanto un po’ di coraggio in più. Coraggio di abbandonare vecchi stereotipi, vecchie credenze ma soprattutto un vecchio assunto duro a morire: “il digital fundraising richiede un grosso investimento di denaro, quindi può essere prerogativa soltanto delle organizzazioni più grandi”. Contrariamente infatti a questa credenza popolare molto diffusa nel Terzo Settore britannico (solo in quello britannico?), investire e impegnarsi nella comunicazione e nella raccolta fondi digital non è sinonimo di “spendere una fortuna”, anzi. Oltre al fatto che numerosi sono gli strumenti tecnici a basso costo (o anche gratuiti) che ci permettono di intercettare il nostro pubblico, di studiarlo e di “parlargli”, varrebbe la pena, prosegue Curtis-Moss, iniziare a concentrarsi su una domanda: considerato il panorama generale, quanto potrebbe ricavare una onp dalla collaborazione con persone preparate, capaci di parlare davvero con i suoi utenti? E da qui, trarre le dovute conclusioni.
Ma non è finita qui. Siccome siamo persone curiose e sempre in vena di domande, vogliamo provare a lanciarne una anche “al di qua” della Manica: qual è la situazione in Italia? Qual è il rapporto del non profit con il mondo digital?
[to be continued]
Fonti:
wearesocial